Ilaria Sagaria. Palomonte, Salerno, 1989. Nel 2008 si trasferisce a Napoli dove si iscrive all’Accademia di Belle Arti, laureandosi prima in Pittura e poi in Fotografia. Nel 2015 vince il concorso fotografico internazionale bandito dall’Ariano International Film Festival, mentre nel 2016 è tra i vincitori del premio Sette Opere di Misericordia bandito dal Pio Monte della Misericordia a Napoli. Alcune sue opere sono esposte nella collezione permanente del Museo MUSINF di Senigallia, nell’area dedicata all’Archivio Italiano dell’Autoritratto Fotografico. Nel 2017 Giorgio Bonomi pubblica alcuni suoi lavori all’interno del suo secondo volume de Il corpo Solitario. L’autoscatto nella fotografia contemporanea. Nel 2018 è tra i vincitori della Biennale dei Giovani Fotografi Italiani e tra i finalisti del Premio Portfolio Italia. Sempre nello stanno anno viene scelta da Antonio Biasiucci per entrare a far parte della terza edizione del suo LAB – Per un Laboratorio Irregolare. Attualmente vive e lavora come fotografa tra Napoli e Monaco di Baviera. La fotografia la rende felice.
Il dolore non è un privilegio. La violenza tramite acido è un fenomeno globale che non è legato alla razza, alla religione e tantomeno alla posizione sociale e geografica. Nonostante siano stati registrati casi di aggressione anche ai danni di uomini, rimane una forma di violenza con un impatto maggiore sulle donne, la quale sottintende una forte discriminazione sessuale all’interno della società, seppure con dinamiche e modalità diverse in base ai luoghi dove questa violenza si genera. Le vittime subiscono una tortura che è terribile anche soltanto immaginare: vengono colpite con getti d’acido corrosivo sulla pelle del viso, vengono accecate, rese sorde, annientate. Questo accade alle ragazze e alle donne che decidono di interrompere una relazione, che osano rifiutare di fidanzarsi o sposarsi, magari perché la loro dote non è considerata sufficiente dalla famiglia del marito o anche soltanto per invidia e cattiveria. Il volto sfregiato è solo una parte visibile del calvario che queste donne devono affrontare: oltre alla brutalità dell’evidenza causata da un gesto inumano, al dolore, alle operazioni chirurgiche, ai segni e alle cicatrici, c’è il trauma psicologico da affrontare, la perdita dell’identità, la depressione e l’isolamento. Alcune donne nella fase iniziale della convalescenza sono costrette a passare lunghi periodi chiuse dentro casa e, anche quando potrebbero uscire all’aperto, non hanno il coraggio di mostrarsi in pubblico e di affrontare lo sguardo della gente. Molte di loro mettono via gli specchi e le loro fotografie, eliminando qualsiasi cosa che possa mostrare quello che erano prima e quello che sono ora. Diventano prigioniere di una casa privata di memoria e identità, dove lo spazio e il tempo sembrano congelarsi, perché loro stesse sono state private del loro passato, presente e futuro. Mi sono chiesta cosa volesse dire passare intere giornate chiusa dentro casa, aggirarsi tra le stanze come un fantasma mentre sei costretta a fare i conti con il tuo nuovo aspetto e ad accettare il fatto che sarà quello il tuo nuovo volto per tutto il resto della tua vita. Quando un volto viene deturpato è la stessa memoria del proprio corpo a perdersi, è la stessa vita ad essere cancellata. La nostra faccia è la nostra identità, racconta quello che siamo, la nostra storia e la nostra esistenza. Che cosa diventa una persona quando perde la sua reale identità? Cosa rimane di lei se rimane solo il vuoto del suo volto negato?
Ha partecipato all’edizione 2019