Un vuoto che non ha luogo. Diego Cibelli. fino all’11 gennaio 2025. Galleria Alfonso Artiaco, Napoli – Italia

La personale dell’artista napoletano Diego Cibelli (Napoli, 1987) dal titolo Un vuoto che non ha luogo si snoda nelle sale della galleria, come una favola circolare in sei episodi. Le prime due sale, È nato Generosity e Metamorfosi, esplorano il tema della nascita, intrecciando prospettive culturali e scientifiche. Da qui, il percorso si inoltra in territori onirici: Storie per farlo dormire presenta un carillon che intreccia le referenze visive, accostando stili ed epoche, simbologie e invenzioni; diversamente, Enigma, propone un’immersione negli spazi misteriosi e talvolta impervi della coscienza. In questo viaggio, la stanza Beata fragilità diventa il luogo in cui si tenta di nominare e rendere visibili le ombre che turbano l’animo umano. Infine, l’enigma si risolve nell’ultima sala che prende il titolo della mostra: Un vuoto che non ha luogo.

Dal testo critico di Sylvain Bellenger, contenuto nel catalogo della mostra: “Un vuoto che non ha luogo racconta una storia. È la storia di un artista emerso dalla rivolta dell’Arte Povera che dominava esteticamente, intellettualmente e moralmente la formazione e gli ambienti artistici ancora negli anni ’10 del Duemila. Diego Cibelli allora era uno studente e abitava, come tutt’oggi, a Scampia. Un artista che proviene da una rottura, oramai ben normalizzata, e da un quartiere di Napoli il cui stesso nome evoca tutto ciò che la speculazione edilizia, la società, la densità abitativa e l’urbanistica razionalista, talvolta mescolata alla violenza, sono stati capaci di inventare. “Scampia senza rabbia” dice Diego. È stato proprio questo ambiente urbano a ispirare le sue prime metamorfosi. Per Diego, l’appartenenza a un luogo, qualunque esso sia, è la parte più delicata e importante dell’essere umano. È il concetto fondante della sua pratica.
La porcellana è quasi umana”, dice Diego, “porta con sé un’abbondanza di forme fusionali la cui generosità e profusione sono senza precedenti”.  Ovunque c’è abbondanza, generosità, sorpresa, virtuosismo e abilità di cui meravigliarsi. Fin dalla prima stanza, gli animali presentati da Diego sembrano esseri parlanti, ma non dicono nulla. È la favola a dare il tono, ma non si tratta di Esopo, La Fontaine, Giambattista Basile o il Roman de Renard. Sono divertimento e infanzia, quella di tutti i bambini, come se l’artista fosse un adulto che non ha rinunciato alla fanciullezza, qualità intrinseca dell’arte. Il biscuit predilige l’onirico e gli animali umanizzati e talvolta metamorfosati di Diego non si rifanno alla tradizione animale di Joachim Kändler a Meissen, per esempio, ma ci riportano al mondo della fiaba, delle ombre e delle sagome, come le figure ritagliate con grandi forbici di Andersen o i mostri ibridi del fantastico bestiario medievale.
Per Diego, come per Anna Maria Ortese ne Il Porto di Toledo, il mare è un elemento importante dell’identità napoletana, una costante del territorio che cerca di esprimere. Ad essere incorporato nella sua poetica non è tanto il paesaggio marino, ma i misteri ispirati dai disegni di ciò che non era mai stato visto prima degli straordinari schemi di uno dei grandi apostoli del darwinismo, Ernest Haeckel, maestro di Anton Dohrn, che nell’ambito della Stazione Marittima di Napoli cercò di trovare l’origine della vita nelle acque del Golfo di Napoli. Trasposti, trasformati, ingranditi e mutati in porcellana, i suoi disegni di invertebrati marini, radiolari, spugne, coralli, meduse e sinofobie, che avevano rivoluzionato la biologia marina, mostrano le incredibili stravaganze a cui la natura e la vita si erano abbandonate. Sembrano appartenere a un altro pianeta, quello dei sogni e delle trasformazioni che anche altre opere di Diego prendono in prestito dalla terra e dalle sue mitologie”.